Trama

Tra il 1962, anno in cui ancora suonavano quasi solo tra Liverpool e Amburgo, e il 1966, quando si guardarono in faccia e si dissero basta, basta con i tour, basta con quella follia ormai fuori controllo, passarono solo quattro anni, eppure tanto (poco) fu sufficiente per i Beatles per dar vita ad un fenomeno sociale senza precedenti, che radunò in ogni parte del mondo folle di dimensioni mai viste.
Ron Howard racconta la storia di quella straordinaria ascesa con un film che attinge ad un repertorio scelto con cura, spesso inedito, che non smarrisce mai la dimensione concentrata, volutamente ridotta, nonostante tra i temi ci sia anche la nascita del fanatismo di massa, come lo conosciamo oggi. Come l’equipaggio dell’Apollo 13, il punto di vista dei Beatles resta ciò che interessa al regista, mentre il resto del mondo è l’interlocutore, l’altro soggetto di un dialogo che per qualche tempo suona straordinariamente brillante (i ragazzi di Brian Epstein si divertirono per qualche anno tanto a suonare che ad essere venerati: il circolo era virtuoso) ma poi si esaurisce, quando John, Paul, George e Ringo non sentono più la loro voce (l’occasione-simbolo è il concerto allo Shea Stadium di New York nel 1965, di fronte a più di 55mila persone) e scelgono di chiudere la conversazione.
Fin dall’inizio dell’avventura live, in ogni caso, Howard ricorda che la stampa non faceva altro che domandarsi quando sarebbe finita e come. Quando sarebbe scoppiata la bolla? Quanto poteva andare avanti la Beatles mania, a quel ritmo mai visto? In fondo, lui stesso vuole arrivare lì, a quel ritorno sul tetto dell’ufficio di Londra, che è il momento più bello del film, e anche quello più autoriale, perché è un happy end scelto, fermato nel tempo, coerente con la scelta di raccontare la parabola delle esibizioni dal vivo del gruppo, che lì si arrestano per sempre, ma non con il sapore della fine reale dell’avventura beatlesiana. A quel punto i Fab Four non sono più una cosa sola, un essere con quattro teste acconciate allo stesso modo, non sono più i ragazzini sfrontati che avevano una risposta per tutto e per tutti, e che grazie al loro cameratismo e al loro umorismo sono arrivati dove altri non si erano mai sognati di arrivare: sono cresciuti, cambiati, ognuno ha preso la sua strada, fatto la sua famiglia, e la musica è tornata ad essere il loro unico interlocutore.
The Beatles. Eight days a week racconta questo approdo sul tetto di casa, raggiunto passando dal tetto del mondo, con apparente semplicità di modi, e persino con parsimonia nell’uso del repertorio. Riducendo le interviste video al minimo indispensabile e facendo lo stesso con le voci di contorno, il documentario lascia la parola ai quattro protagonisti e riavvolge con loro il filmino dei ricordi, raccordando finemente sull’asse clip proveniente da momenti e formati diversi e costruendo anche visivamente, senza distrazioni, quel dialogo tra loro e con il pubblico, che è la direttrice di questo sguardo.

Video e foto

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